Neanche la morte potè fermarlo
Ottantadue anni fa moriva Gabriele d’Annunzio, il Vate del Fascismo che neanche la morte potè fermare. Egli fu la massima espressione del Decadentismo; nonché drammaturgo, militare, politico, giornalista, ma soprattutto un patriota italiano. Amante della vita, la sua dipartita lo ha reso ancora più sacro e immortale nei cuori e nelle menti degli italiani. D’Annunzio, nell’estate del 1913, scrisse un lungo racconto intitolato “La Leda senza cigno” nel quale ci lascia una testimonianza del suo amore per la vita e le sue leggi scritte dal Caos:
“La nostra vita è un’opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto più è ricca quanto più se ne allontana, attuata per occulto e spesso contro l’ordine delle leggi apparenti”
Il Vate lo affermerà spesso che “io ho quel che ho donato“, facendo intendere al lettore dei suoi scritti autobiografici – e non solo – dei sacrifici compiuti da lui stesso per ottenere ciò che egli ha avuto e ha tuttora. D’Annunzio, al pari delle Tre Corone, del Ludovico Ariosto, del Manzoni e degli autori massimi del XX secolo è riuscito a sfondare il velo che separa le anime degli uomini dall’immortalità.
Profondo amante delle donne e uomo dallo spirito indomito in materia sia bellica che poetica, lo spirito di D’Annunzio aleggia ancora nella profonda crisi culturale del mondo moderno.
La penna, la valigia…
“Roma, d’innanzi, si profondava in un silenzio quasi di morte, immobile, vacua, simile a una città addormentata da un potere fatale.”
Lungo un segmento che parte da Pescara e termina a Roma, unendo dunque l’Adriatico al Tirreno, cresce il mito di Gabriele d’Annunzio. L’Urbe offrirà al Vate la possibilità di unire due stili di scrittura diametralmente opposti: la bucolica narrazione di provincia e la frenesia della vita mondana si mischiano per dar vita al meraviglioso romanzo “Il piacere“. Il suo primo scritto romanzato gli permetterà di diventare un divo ante litteram.
Raccontando la volontà di “vivere un’altra vita”, i comportamenti e il bisogno di sogni e di misteri di gran parte degli italiani; D’Annunzio comincerà la sua scalata verso l’immortalità. Con la valigia sempre in mano per via dei suoi frequenti spostamenti tra Roma, Napoli e Firenze, il Vate conoscerà molte delle donne che lo inebrieranno durante la sua vita.
A Roma conobbe la sua prima moglie, la duchessa di Gallese Maria Hardouin, con la quale si separerà poco dopo per le numerose relazioni extraconiugali del D’Annunzio. Poco più tardi, sempre nella Capitale, conoscerà la sua amante Barbara Leoni. Ella sarà l’amore più grande della vita del Vate nonostante la brevità della loro relazione.
Durante il periodo partenopeo D’Annunzio comporrà due opere degne dell’Olimpo degli scrittori: il romanzo “Il trionfo della morte” e la canzone in napoletano “A’ vucchella“, la quale verrà eseguita da tenori come Caruso e Pavarotti. A Firenze prese come punto di riferimento delle sue opere la celebre attrice Eleonora Duse, la quale divenne presto una sua amante. Tra il 1894 e il 1904 – periodo del soggiorno fiorentino – D’Annunzio comporrà gran parte delle Laudi e la sua punta di diamante: l’Alcyone.
… e il volantino
D’Annunzio per sfuggire all’ormai incrinato rapporto con la Duse e a parecchi debitori, decise di trasferirsi a Parigi. Lì era già conosciuto per via delle traduzioni effettuate sulle sue opere. Ebbe inoltre la fortuna di trovarsi accanto il fautore del futurismo Marinetti e Claude Debussy. Proprio in questo periodo D’Annunzio si schiererà contro l’Accademia della Crusca e le università dopo l’invito fatto dagli accademici affinché diventasse uno di loro.
“Amo più le aperte spiagge che le chiuse scuole dalle quali vi auguro di liberarvi”
Dopo aver gentilmente rifiutato la proposta ed essersi affiancato al PSI durante la sua esperienza come deputato, il Vate condusse una gigantesca opera di propaganda interventista nel primo conflitto mondiale. Richiamò a sé il mito del Risorgimento e di Garibaldi, dando una lettura storiografica diversa al conflitto stesso. Esso diventerà per buona parte degli storici la “quarta guerra d’indipendenza italiana“.
Nonostante i suoi 52 anni d’età, D’Annunzio si arruolò volontario nei Lancieri di Novara e si rese protagonista di numerose imprese, spesso di stampo propagandistico. Tra esse ricordiamo la beffa di Buccari, il volo su Vienna, le battaglie di Pola e di Cattaro e la decima battaglia sull’Isonzo.
“Memento Audere Semper” e “Donec ad Metam, Vienna!” saranno le frasi più celebri composte nel periodo bellico. La prima diventerà il motto della X MAS, la seconda venne scritta sui volantini lanciati durante il volo su Vienna da parte del Vate.
L’impresa di Fiume
Non basterebbe un articolo per descrivere l’impresa di Fiume. Secondo D’Annunzio bisognava “trasformare il cardo bolscevico in rosa d’Italia, Rosa d’Amore.” Le conferenze di pace parigine avevano esagerato. Con una spedizione di legionari, il Vate occupò Fiume, città non riconosciuta all’Italia. Nel 1920 istituì il “Comando dell’Esercito italiano in Fiume d’Italia” e sempre in quell’anno aderì al Fascio di combattimento di Fiume.
Venne varata la “carta del Carnaro“, una Costituzione provvisoria modificata in parte da D’Annunzio, la quale sanciva diritti come il suffragio universale, la libertà di opinione, religione e orientamento sessuale e la depenalizzazione dell’omosessualità, del nudismo e dell’uso di droghe. Vennero sanciti nuovi e numerosi diritti ai lavoratori, l’istituzione del corporativismo e il risarcimento degli errori giudiziari. Clicca qui per leggere l’intero testo della Carta del Carnaro
Il 12 novembre del 1920, l’Italia e la Jugoslavia stipuleranno il Trattato di Rapallo rendendo Fiume una città libera. D’Annunzio non accetterà il trattato e la città avrà pace soltanto nel 1924 quando verrà annessa all’Italia fascista.
D’Annunzio e il Fascismo
Il dibattito tra gli storici riguardante la totale annessione del Vate al Fascismo non cessa di esistere. Credo fermamente che D’Annunzio sia stato il precursore politico e letterario dell’impeto fascista. Il Vate non ha mai voluto la tessera del PNF per questioni di pura libertà. Sapeva di ritrovarsi in toto nelle idee del Fascismo, ma decise di operare al di fuori dei rigidi schemi della burocrazia mussoliniana.
Insieme a Marinetti firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti il 21 aprile del 1925. Per appurare la tesi precedentemente enunciata, è necessario riportare la risposta del Vate alle accuse del socialista Zaniboni, il quale aveva comunicato al giornale “Il Mondo” di aver intercettato una lettera scritta dal D’Annunzio ad un legionario fiumano con su scritto: “sono molto triste di questa fetida ruina.“
Il Vate non si fece attendere e rispose il 5 novembre sul quotidiano “La provincia” di Brescia:
“A tutti i politicastri, amici o nemici, conviene dunque ormai disperare di me. Amo la mia arte rinovellata, amo la mia casa donata. Nulla d’estraneo mi tocca, e d’ogni giudizio altrui mi rido.”
D’Annunzio ebbe parecchio da dire sull’alleanza tra la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini. Egli vedeva Hitler come un “pagliaccio feroce” o un “ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot”. E proprio in questo periodo, anche per via della sua salute cagionevole, il Vate decise di compiere un’ultima impresa irredentista nei territori dalmati, ma fu acquietato da Mussolini e Starace.
Nel 1937 divenne presidente dell’Accademia d’Italia e della SIAE dal 1920 al 1938. Grazie a queste due cariche e ad un assegno statale stipulato direttamente dal Duce, D’Annunzio riuscì a ripagare parecchi dei suoi debitori.
La fine del corpo, l’inizio del mito
Il Lunario Barbanera stava intrattenendo il Vate nella sera del 1 marzo 1938. Ormai ad un passo dalla sua dipartita, D’Annunzio aveva presagito la sua imminente morte sottolineando una riga dell’almanacco che descriveva la morte di una personalità. Era come se sentisse di essere ad un passo dalla fine della sua immensa vita. Difatti alla sua amica Ines Pradella aveva scritto poco tempo prima:”Fiammetta, oggi patisco uno di quegli accessi di malinconia mortali, che mi fanno temere di me; poiché è predestinato che io mi uccida. Se puoi, vieni a sorvegliarmi.”
Ai funerali di Stato indetti dal regime fascista accorse una folla immensa. Il passaggio del testimone era appena avvenuto. Gabriele D’Annunzio aveva sfondato il velo che separa le anime dall‘immortalità dell’essere.
“Credo nell’esperienza di un fato che ci genera e ci costringe a sporcare la faccia del mondo per vedere come ce la caveremo. Per difendermi ho imparato a maneggiare il fango. In fondo solo con il fango una mano sapiente può costruire qualche cosa che resista al fuoco. Anche se i più lo maneggiano non per costruire, ma per insozzare e per distruggere.”
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