23 maggio 1992
Ciò che avvenne in data 23 maggio 1992 rimarrà – per sempre – una ferita troppo grande per essere rimarginata. Ella brucia con vivo ardore ogni giorno: quando siamo per strada, in un negozio o in un parco; in qualsiasi ora della giornata. La strage di Capaci è un’altra di quelle pugnalate che quotidianamente vengono inferte al cuore delle anime buone. Dimenticare è impossibile, agire è fondamentale. Occorre essere retti di fronte alle ingiustizie per continuare ciò che gli eroici difensori della Legge hanno iniziato tanti anni fa.
Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Questi sono i nomi delle vittime dell'”Attentatuni“, dicendolo alla siciliana. Il corpo è morto, ma l’anima – ricolma di insegnamenti e di lotte continue contro la piaga mafiosa – continuerà a vivere finché ci saremo noi a ricordarli. Noi che siamo giovani, uomini o donne in carriera e anziani che credono nella Legge e nella Giustizia.
È necessario – seppur appaia come una sorta di disortografia – sottolineare con l’utilizzo della maiuscola i vocaboli precedentemente utilizzati. Perché la carica morale che vi è dentro di essi, dovrebbe farli risplendere sempre, soprattutto sulle pagine dei giornali. Ci sono giorni in cui essere siciliani è facile, altri in cui è doveroso e giorni in cui esserlo è un onore. Giornalmente, noi abitanti della splendida Trinacria, dovremmo rendere onore alle vittime della peste mafiosa.
Ricordarle soltanto in questa giornata o il 19 luglio è fin troppo semplice. È con i nostri comportamenti che decidiamo di lottare contro le piaghe del nostro territorio. Non asservendoci, non abbassando lo sguardo di fronte alle ingiustizie. Piuttosto leggendo, informandoci su ciò che è avvenuto e studiando per offrire al prossimo un mondo migliore. Perché l’intento di Giovanni, di Francesca, di Paolo e delle altre – ahimè innumerevoli – vittime della mafia era proprio questo: garantirci un futuro lontano dalla viltà mafiosa.
Ore 15:57, autostrada A29, svincolo di Capaci
“Buonasera, siamo in grado di darvi le prime immagini dello spaventoso attentato nel quale ha perso la vita il giudice Giovanni Falcone…“. Apriva così l’edizione speciale del TG1 condotta dalla voce affranta di Angela Buttiglione, la quale come altre centinaia di migliaia di italiani, stentava a credere a ciò che era appena avvenuto in Sicilia. Le immagini che arrivarono subito dopo le sue parole furono devastanti. Un cavalcavia demolito, macerie ovunque, automobili distrutte dal tritolo mafioso, corpi divelti dall’esplosione.
È bastato il semplice tasto di un telecomando azionato dalle diaboliche menti mafiose per creare un pandemonio del genere. Vennero utilizzati 400 chili di miscela esplosiva inserita in tredici bidoncini da Brusca, La Barbera, Troia, Gioè e Rampulla sotto ordine di Totò Riina. Il “nemico n.1 della mafia” doveva essere ucciso in modo “spettacolare” affinché tutti se ne ricordassero.
Secondo l’indagine “Mandanti occulti” aperta dalla Procura di Caltanissetta non vi furono “mandanti esterni” nell’organizzazione dell’attentato. Difatti, in un’intervista del Giornale di Sicilia a Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, si legge:
<< Da questa indagine non emerge la partecipazione alla strage di Capaci di soggetti esterni a Cosa nostra. La mafia non prende ordini e dall’inchiesta non vengono fuori mandanti esterni. Possono esserci soggetti che hanno stretto alleanze con Cosa nostra ed alcune presenze inquietanti sono emerse nell’inchiesta sull’eccidio di Via D’Amelio: ma in questa indagine non posso parlare di mandanti esterni. >>
Ne siamo davvero sicuri? Eppure sono risaputi i rapporti tra Cosa nostra e vari apparati deviati. Fu proprio Totò Riina, nel lanciare il primo dei suoi oscuri messaggi, a parlare di un aereo nel cielo di Capaci al momento dell’attentato e lo fece in aula a Firenze, nel 2003, definendosi “parafulmine” di tutte le stragi. Poi si smentì nel cortile del carcere di Opera, a Milano, durante uno dei suoi colloqui video-registrati con il detenuto Lorusso:
<< Sono tante le fesserie dette sulla strage di Capaci, hanno anche parlato di un aereo che ha bombardato la zona. >>
Resta il fatto che quattrocento chili di esplosivo non sono riusciti a uccidere tutti gli occupanti dell’auto guidata da Giovanni Falcone. Difatti sopravvisse l’autista, Giuseppe Costanza, il quale probabilmente si salvò la vita per via del gesto compiuto da Falcone di togliere le chiavi dal quadro mentre era in corsa. Ciò causò il rallentamento fatale per i due giudici, ma non per l’autista sedutosi nei sedili posteriori.
La commemorazione in assenza di verità: chi ha ucciso Giovanni Falcone?
Giovanni Falcone non è morto invano, ma coloro che lottano in suo nome devono sapere la verità. Di certo non ce lo riporterà indietro, ma per amor di Legge e Giustizia, essa dovrà – prima o poi – essere scoperta. Hanno tentato, durante tutti questi anni, di depistare le indagini e di incriminare soltanto dei subdoli “soldati“, quando in realtà il nemico sta ben al di sopra di tutti noi.
Ancora oggi non si sa chi, tra i boss, scelse il cunicolo sotto cui piazzare i quattrocento chili di esplosivo. Brusca disse solo che non era stato lui a scegliere il luogo. Giovambattista Ferrante, di Capaci, ammise che l’incarico gli era stato affidato da Salvatore Biondino e che il viadotto venne scelto da lui dopo una serie di sopralluoghi.
Ciò che colpisce è che tra le auto segnalate in quel periodo ad Arezzo, << nei pressi della villa di Gelli >>, dall’informativa della Dia del 14 febbraio 1994 agli atti dell’inchiesta Sistemi Criminali ve ne sia una intestata a << tale Ferrante, residente a Capaci >>. Sono cognomi che dovrebbero farci riflettere. Ultimamente si è anche discusso della presenza dei servizi segreti di altri Paesi. Purtroppo, nonostante tutti gli sforzi compiuti, alla verità – forse – non ci arriveremo mai.
Ciò che davvero conta, come detto poc’anzi, è mantenere vivo il ricordo di quanto è avvenuto. Le anime di Giovanni, di Francesca, di Paolo e degli agenti della scorta vegliano su di noi. La lotta contro la piaga mafiosa è difficile, spesso letale, sentiamo abitualmente in noi lo scoramento delle debolezze, dei cedimenti; ma occorre amare la vita, soprattutto in questi giorni difficili. La vita non è una forma di tristezza, ma la gioia fatta carne.
Gioia di essere utile, di domare quel che potrebbe macchiarci o sminuirci, di donarci incondizionatamente per la felicità del prossimo. È questo che i nostri eroi hanno fatto. Il testimone adesso è in mano nostra. Dobbiamo essere disposti a dare tutto per combattere una piaga secolare. Loro non vinceranno mai. Ci toccherà utilizzare anche un po’ d’immaginazione, proprio come diceva Sciascia:
<< L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione? >>
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