Il nuovo coronavirus «clinicamente non esiste più» ed «ha perso la sua potenza di fuoco iniziale», tanto che attualmente i pazienti si presentano in condizioni meno gravi ed il decorso della malattia è più leggero. A sostenere che il SarsCov2 abbia cambiato volto, perdendo molta della sua virulenza, sono gli esperti Alberto Zangrillo e Matteo Bassetti.
Ad accendere il dibattito sono le dichiarazioni di Zangrillo, direttore della terapia intensiva del San Raffaele di Milano: “Clinicamente il nuovo coronavirus non esiste più. Circa un mese fa – ha sostenuto – sentivamo epidemiologi temere per fine mese o inizio giugno una nuova ondata e chissà quanti posti di terapia intensiva da occupare. In realtà il virus dal punto di vista clinico non esiste più. Qualcuno terrorizza il Paese».
Per Bassetti la potenza di fuoco è diversa
E che il virus non sia più lo stesso lo sostiene pure il direttore della clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova Matteo Bassetti, partendo dalla sua esperienza sul campo. Il virus «potrebbe ora essere diverso: la potenza di fuoco che aveva due mesi fa non è la stessa potenza di fuoco che ha oggi. Da medico che è sul campo – afferma – dico che i malati di ora sono diversi da quelli di due mesi fa: prima i pazienti avevano una condizione molto più grave, ora meno. E’ cioè evidente che oggi la malattia Covid-19 è diversa, perchè la sua presentazione clinica ed il suo decorso sono più lievi» e da “circa 4-5 settimane, i pazienti che vediamo non sono più casi così gravi come a marzo e ad aprile». Proprio queste evidenze sul campo, spiega quindi Bassetti, «ci fanno dire che il virus potrebbe essere diverso».
Le cure sbagliate all’origine dei decessi
“All’inizio dell’emergenza coronavirus uno dei problemi è stato che quasi tutti i pazienti sono stati trattati come eravamo abituati a fare nei casi di grave insufficienza respiratoria. Ma la Covid-19 è una forma molto particolare, qualcosa di diverso. E’ una malattia sistemica che ha la sua massima espressione nel polmone. E sicuramente il trattamento influisce sulle mortalità diverse registrate nelle terapie intensive, a seconda della latitudine. Si va dal 5%-10% di Lugano al 90% registrato nei reparti di altri 2 Paesi del Vecchio continente. In Lombardia siamo a circa il 26%, ma avendo ancora tanti ricoverati potremmo finire con un 30-40%. Siccome la malattia è la stessa, non ci sono scuse: va riconosciuto che forse il trattamento o il non trattamento ha fatto la differenza“. E’ l’analisi di Luciano Gattinoni, decano dei rianimatori italiani, che all’AdnKronos Salute spiega i motivi di questa variabilità.
“Occorre capire a che stadio sono i pazienti e al momento giusto intervenire con un’intubazione e lasciarli tranquilli per un congruo periodo di tempo. Se cerco di svegliarli immediatamente regrediscono. Perché la malattia è ancora lì”.
Bombardare i polmoni? Non serve
Altro suggerimento è dunque di “non guardare all’ossigenazione ma alla malattia”. Come bisogna muoversi con i pazienti critici? Per Gattinoni è cruciale “operare sul polmone un trattamento gentile, con calma”. Quello che fanno di diverso nei Paesi in cui la mortalità da Covid nelle terapie intensive è più bassa è “vedere il malato e intubarlo se dà pieni segni del fatto che tenta di respirare profondamente. Il paziente viene tenuto tranquillo con pressioni basse, e ne può più facilmente uscire”. All’estremo opposto ci sono situazioni in cui “su 150 pazienti ricoverati in terapia intensiva ne sono usciti vivi solo 9. Che il trattamento diverso influisca sull’esito è indubbio a mio avviso”.
Analizzando le varie espressioni della Covid sono stati descritti gli estremi di due fenotipi: quello iniziale e quello tardivo e più complicato. “Occorre osservare, misurare, avere in testa il quadro e intervenire con il presidio giusto al momento giusto. La stessa cosa può essere utile o tremendamente sbagliata”. Ecco perché, conclude, “non si può prescindere dall’esperienza. Se un medico di un’altra specialità venisse messo davanti a queste scelte non saprebbe da che parte cominciare”. A seconda della latitudine a cui ci si trova, dunque, “le probabilità di non essere trattati al meglio possono aumentare o diminuire”.
Guardavamo i polmoni ma la mortalità riguarda reni e cuore
Secondo un articolo di aprile pubblicato sul sito della Fondazione Veronesi nel caso della pandemia di Sars-CoV-2, sono stati i cinesi i primi a registrare le complicanze cardiovascolari nei pazienti contagiati. Un’ipotesi poi confermata anche dai colleghi italiani, attraverso le colonne della rivista Jama Cardiology.
I medici hanno descritto il caso di una donna di 53 anni giunta in ospedale in buona salute, ma affetta da Covid-19. Nell’arco di pochi giorni, gli specialisti hanno registrato un quadro clinico compatibile con una miocardite. La spiegazione di quanto osservato l’hanno fornita alcuni ricercatori statunitensi, sempre attraverso le colonne di Jama Cardiology. «Covid-19 determina un aumento rapido e significativo della risposta infiammatoria, che può coinvolgere anche i vasi sanguigni e il cuore».
Da qui l’aumentato rischio di eventi quali le vasculiti e le miocarditi, nei casi più gravi responsabili di aritmie cardiache fatali. In diversi casi, inoltre, i medici hanno riscontrato elevati livelli di troponina, segno di un danno al cellule del tessuto cardiaco primo campanello d’allarme per l’infarto del miocardio. Ma le conseguenze per l’apparato cardiocircolatorio non sarebbero soltanto queste. L’eccessiva risposta infiammatoria fungerebbe da scompenso anche per la cascata di reazioni che portano alla coagulazione del sangue. Risultato? L’incremento della formazione di «grumi» di sangue, da cui l’aumentato riscontro di episodi quali le trombosi e le embolie polmonari.
Dalle prime autopsie alcune risposte
«Nelle autopsie finora condotte, si è visto che un terzo dei pazienti è deceduto a causa di un’insufficienza renale acuta – afferma Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale (Simg) -. Sappiamo che l’infezione determina un aumento della microcoagulazione del sangue in diversi organi. Alcune persone potrebbero essere morte perché i reni si sono bloccati proprio a causa di questo evento. Non è un caso che l’Agenzia Italiana del Farmaco abbia dato l’ok all’uso dell’enoxaparina, un farmaco usato da tempo per la cura di diverse malattie vascolari che tendono a formare trombi ed emboli».
Le autopsie daranno quindi altre risposte ma è evidente che l’efficacia del virus è crollata su se stessa, specie nelle Regioni del Sud. Ne sappiamo ancora poco ma dai primi dati, si può evincere che siamo fuori dal pericolo, almeno in Sicilia.
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