Il motto del neoliberismo: “vivere pericolosamente” per ottenere la libertà
“Vivre dangereusement” o “vivere pericolosamente” è il motto del neoliberismo. Questo binomio ormai sempre più acquisibile come una composizione esocentrica, deriva dall’antologia delle lezioni di Foucault intitolata “Nascita della biopolitica“. Secondo il sociologo francese, la cultura del pericolo e dell’azzardo quotidiano si presenta come una caratteristica tipica del neoliberismo. Dunque l’uomo contemporaneo è costretto a vivere nel pericolo.
Foucault spiega che il segreto della “governamentalità” -altro termine da lui coniato – liberale si condensa proprio nella formula citata precedentemente con l’aggiunta di un’altra frase del sociologo: “la devise du libéralisme, c’est ‘vivre dangereusement”: “il motto del liberalismo, è vivere pericolosamente“. Vivere pericolosamente è una predisposizione necessaria perché essa enfatizza l’inevitabilità del rischio. Chi ricerca la tanto agognata – quanto falsa – libertà si espone ai rischi che essa produce. La società odierna vede il pericolo come prodotto stesso della libertà.
Il potere neoliberista nel quale cercano di immergerci vive di instabilità e insicurezza, di paura e di mancanza di punti fermi. La crisi e il terrore sono elementi coessenziali al suo ordinamento, al suo ordine disordinato, alla sua anarchia efficiente. Mantenendo le esistenze su un piano precario e dissolvendo la stabilità in ogni sua forma, l’ordine neoliberista esercita al meglio il suo potere apparentemente lasco e permissivo, in verità onnipervasivo e disciplinare.
In nome dell’emergenza si rimuove la libertà. In nome della garanzia della sicurezza si sottraggono i diritti conquistati. Foucault fu quasi profetico – nei lontani anni ’70 del XX secolo – sulle azioni intraprese in quest’ultimo periodo dalla maggior parte dei governi europei, i quali si vedono contrapposto il fatalismo dell’inquilino del numero 10 di Downing Street, Boris Johnson.
L’11 settembre 2001 e il Patriot Act: la libertà è schiavitù
Al termine di un momento di grave crisi, il potere introduce nuovi elementi per aumentare il controllo sulle masse. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle – nel quale persero la vita 2966 persone – venne introdotto negli Stati Uniti il cosiddetto Patriot Act. L’adozione dell’atto avvenne il 26 ottobre del 2001. Il nuovo programma di sicurezza consistette nell’introduzione di nuove e più stringenti operazioni di sorveglianza sul suolo americano attraverso una serie di misure coercitive.
L’aggiornamento della banca dati e del sistema informatico del FBI, il coordinamento di quest’ultima con la CIA e la riforma dei poteri e delle procedure dell’intelligence furono soltanto i primi passi. Venne esteso il periodo di detenzione dei sospettati prima del processo, venne rivisitata la sicurezza dei documenti, l’accesso alle registrazioni, ai documenti e ai materiali privati da parte delle autorità governative.
Il 13 novembre 2001 si aggiunse al Patriot Act anche il Military Order. L’ordinativo introdusse la figura inedita degli “enemy combatants” o “combattenti nemici“, ovvero quei soggetti catturati nelle operazioni antiterrorismo. Sia che esse siano avvenute in territorio americano che all’estero, cosa ben più problematica. La preoccupazione più grave riguardò la possibilità che molti di questi provvedimenti, i quali furono adottati come leggi speciali, d’emergenza, provvisorie, diventassero la regola a cui il popolo avrebbe dovuto abituarsi. E così fu.
Dopo aver assistito all’alienazione permanente dei “diritti inalienabili“, in un contesto in cui le democrazie, trascinate dall’ossessione anti-terrorista, si trasformarono in mere parodie di se stesse, noi ad oggi dovremmo prepararci all’arrivo di nuove e pericolose misure liberticide che si aggiungeranno a quelle già presenti, tipiche di uno stato militarizzato.
Le manovre liberticide americane sbarcarono in Europa e in Asia
Le manovre liberticide americane sbarcarono successivamente in Europa e in Asia. Dunque dopo il “Martedì delle tenebre” si incrementò la sorveglianza e vennero meno le garanzie. Con la scusante della guerra al terrorismo, i controlli su Internet e altri mezzi di comunicazione digitale aumentarono in maniera esponenziale. Vennero emanate leggi molto simili al Patriot Act anche in Australia, Canada, Danimarca, Gran Bretagna, Germania, Singapore, India e Svezia.
Sia in Germania che in Gran Bretagna vennero presi in considerazione dei nuovi sistemi di identificazione digitale. Grazie ad una smart card che avrebbe memorizzato tutti i dati del cittadino su un chip elettronico, si sarebbero rafforzati i controlli alle frontiere. Come se ciò non fosse già abbastanza, molti stati provvidero a togliere dalla rete tutte le informazioni su se stessi che potessero, in qualche modo, essere d’aiuto al terrorismo.
Da qui derivò la conseguenza che, mentre i governi nazionali acquisirono – e ottengono tuttora – sempre più informazioni sugli individui, questi sono sempre meno a conoscenza di ciò che gli stessi Governi fanno o progettano. Tali manovre liberticide e senza scrupolo alcuno nei confronti dei popoli potrebbero essere la base delle nuove azioni intraprese al termine della pandemia. Clicca qui per saperne di più sulle manovre liberticide post 11 settembre
La paura è la chiave di volta per l’eliminazione della libertà
La paura è la chiave di volta per l’eliminazione della libertà. Al giorno d’oggi al termine libertà si attribuiscono parecchi significati, ma il predominante riguarda l’aspetto economico, la tanto agognata “indipendenza dal tetto genitoriale” . Oggi tende a prevalere un concetto di libertà estremamente semplificato. Esso tende ad essere riproposto in forma ossessiva come slogan dei governi neoliberisti. Il concetto contemporaneo elabora la libertà come proprietà dell’individuo che termina ove inizia la libertà dell’altro.
Si tratta di un’idea abominevole. Si considera la libertà come una proprietà dell’individuo e per un altro verso neutralizza l’elemento che più è caratterizzante della libertà, cioè essere una relazione sociale tra individui ugualmente liberi. La libertà dunque consiste non in una proprietà e in una sostanza che perviene all’individuo, ma consiste invece dinamicamente in una relazione che si dà nello spazio sociale della comunità fra individui egualmente liberi.
Basti pensare ai “tiranni giardinieri“, come li chiama il politologo Newell, ovvero quei despoti che organizzano lo Stato come se fosse il giardino della loro casa. Inoltre, come afferma il cinico sofista Trasimaco nella Repubblica di Platone, se il tiranno ingrassa il suo gregge di pecore umane, lo fa solo per guadagnarci di più quando le scannerà. Dunque nei regni governati da un despota, non vi è un solo uomo libero, proprio perché manca la componente relazionale fra individui liberi.
Ecco perché – tramite l’insegnamento della storia e della filosofia, occorre oggi ripartire pensando alla libertà intesa come nesso fra individui egualmente liberi nello spazio della comunità solidale e democratica. La paura serve come strumento di un mero ricatto nei confronti della massa spaventata, senza punti di riferimento e priva di un qualsivoglia legame relazionale.
La rimozione progressiva della libertà
Già qualche settimana addietro scrissi un articolo sul futuro assetto geopolitico mondiale e i gravi rischi che esso potrebbe portare con sé. Adesso l’ulteriore minaccia alla quale dovremo opporci sarà quella del prolungamento delle manovre liberticide dopo il termine della pandemia. Al già citato “vivre dangerousement” il neoliberismo annette un altro motto fondamentale: “there is no alternative“. Secondo la religione neoliberista non esiste un’alternativa all’ordine asservito ai mercati da loro concepito.
Chissà che la vecchia Europa non stia imboccando la via che porta alla rimozione progressiva, ma ininterrotta di libertà e conquiste tramite l’utilizzo della crisi sanitaria mondiale. Del resto sono la crisi, l’emergenza e l’esigenza di sicurezza a richiedercelo. Non dimentichiamoci che il paradigma liberista si fonda proprio su questo, ossia su crisi emergenziali in nome delle quali si impongono misure che non possono essere criticate democraticamente, magari vagliate e soprattutto evitate.
Dunque il paradigma precedentemente enunciato procede in questo modo: esso pone in essere un’alternativa fittizia tra un punto che definiremo A e un punto B. Il punto A è identificabile con la salvezza e il punto B con l’abisso. In tal guisa la scelta di A è in realtà una coazione, un obbligo impossibile da poter discutere. Il rischio è quello di venire subissati di vilipendi e di essere tacciati di eresia.
Lo “smart working” e il tracciamento dei cellulari
Come già affermato precedentemente, non c’è alternativa. Due sono i punti sui quali si sta premendo di più: lo smart working e il tracciamento dei cellulari. Se lo smart working dovesse diventare una prassi comune, si annienterebbe quel sacro solco tra casa e lavoro che tanto dobbiamo tenerci stretto. Lavorando da casa si cancellerebbe anche quella piccola libertà che possiamo ritrovare all’interno della sfera relazionale con la nostra famiglia.
Dunque lo smart working può essere una soluzione temporale, ma non può sostituire il metodo classico dell’insegnamento o del lavoro in ufficio. L’altro punto sul quale ci sarebbe da meditare a lungo è il tracciamento dei cellulari. Il ministero dell’Interno ha scoperto che la Regione Lombardia ha chiesto ai gestori telefonici di tracciare i propri abitanti, ottenendo risultati importanti quanto grotteschi.
Più del 40% dei lombardi non rispetta le regole imposte dal DPCM, ma questo tipo di controlli sono una prerogativa dell’autorità giudiziaria, non di un’autorità amministrativa. Oggi è stata la Lombardia, domani potrebbero muoversi tutti gli altri presidenti regionali. Poi si potrebbe arrivare anche ai comuni con poche centinaia di abitanti e nonostante l’anonimato risulterebbe comunque un metodo ultra invasivo.
La profilassi come eccezione alla vita
Il filosofo Agamben ha affermato pochissimo tempo fa che per la paura nei confronti della pandemia da Covid-19 e in nome della sicurezza si stanno imponendo gravissime limitazioni alla libertà. Ad oggi coloro che decidono sono gli “scienziati” con le loro previsioni e le loro sentenze, anche se non dispongono ancora di un vaccino e di dati sufficientemente accurati per calcolare il vero grado di contagiosità e di pericolosità del virus.
Secondo l’Istituto Superiore di Sanità il problema non è tanto la mortalità quanto la difficoltà di reperire posti letto nei servizi di terapia intensiva. Di qui la necessità di introdurre misure cautelative urgenti – aggirando il Parlamento e sospendendo la Costituzione – non seguendo dati specifici e criteri scientifici ben definiti. Le misure adottate dovrebbero lasciare uno spazio di interpretazione e di elaborazione personale per poterle rendere più applicabili e funzionanti.
Altrimenti si creerebbe uno stato di rassegnazione depressiva o una reazione trasgressiva. Quando le misure cautelative diventano troppo restrittive, si mettono in crisi le nostre relazioni e la psicologia collettiva. Questa mera retorica della campagna “Io resto a casa” e lo slogan “cambiamo le nostre abitudini“, come se vivere la nostra giornata nei luoghi d’incontro fosse altamente nocivo, sono operazioni di puro plagio che passivizzano i cittadini.
Dunque con l’imposizione delle regole da parte del Governo si elimina l’interpretazione e con la paura si ottiene il consenso. Una paura che v’è per un pericolo indefinito che riguarda la vita stessa. L’unica cosa certa in questo ginepraio è che non usciremo più liberi di prima. Il mondo è destinato a cambiare radicalmente.
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